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La croce sopravviverà anche a Strasburgo

Ultimo Aggiornamento: 10/11/2009 14:05
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10/11/2009 14:05

10 Novembre 2009
 
 
La difesa dei diritti di libertà richiede
strade di lealtà da parte di tutti
LA CROCE SOPRAVVIVERA`
ANCHE A STRASBURGO
Secondo il giudizio della Corte europea dei diritti dell’uomo, tutor della Convenzione europea sui diritti e le libertà fondamentali, il crocifisso deve essere rimosso dalle aule scolastiche perché materializza, tra l’altro, “una violazione del diritto dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e del diritto degli alunni alla libertà religiosa”. Questa la notizia riferita dalla maggior parte dei quotidiani. A onor del vero, l’utilizzazione di questo solo argomento, tra i tanti esposti dalla Corte (la motivazione della sentenza poggia su una decina di numerosi principi generali, che sono in effetti temi argomentativi) è stata fatta per screditare la sentenza e quasi ridicolizzarla, tanto sembrerebbe inverosimile. In effetti, le argomentazioni e la stessa sentenza nascondono problemi di portata più ampia che possono essere valutati non solo da un punto di vista giuridico e politico, ma anche spirituale e sociale. Senza affrontare lunghi discorsi, propongo alcune prime riflessioni schematiche.
In primo luogo occorre sgombrare il campo da un equivoco di fondo, che è stato affacciato da più parti, mettendo a nudo l’esistenza ancora di un pensiero (non debole) di contrasto all’azione della Chiesa (ancorché diversamente motivato): il crocifisso si trova nelle aule non a motivo del Concordato tra Stato e Chiesa ma per atto unilaterale dello Stato italiano. Il nuovo accordo tra Stato e Chiesa cattolica, sottoscritto nel febbraio del 1984 (così come il Concordato del 1929) non tratta in alcun modo, né diretto né indiretto, del crocifisso e della sua affissione nelle aule scolastiche. Il problema, pertanto, non appartiene al livello dei rapporti formali con la Chiesa cattolica, che sotto questo aspetto non ne è coinvolta.
Vero è che l’esposizione del crocifisso è prevista da disposizioni regolamentari risalenti a due decreti regi, del 1924 (concernente “l’ordinamento interno delle giunte e dei regi istituti medi”, il quale all’art. 118 stabilisce che “Ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re”) e del 1928, tutt’ora vigenti a parere del Consiglio di Stato, nei quali il simbolo è rappresentativo di un modello di società tipico del tempo. In quella prospettiva il crocifisso aveva una valenza civile e culturale, ma non religiosa, essendo rappresentativo di un modello di società e di una logica del potere. Da ciò, comunque, deriva che il problema riguarda l’Italia e i suoi cittadini, tra i quali vi sono anche i cattolici e i cristiani, che sono portatori di interessi socio-culturali e di valori spirituali, che si ritrovano nella nostra carta costituzionale. Sicché la questione va risolta alla luce dei principi giuridici costituzionali e della legislazione italiana vigente.
In secondo luogo, non si può tacere del fatto che la decisione risulta applicare in modo apparentemente asettico principi di diritto, tra i quali quello della laicità dello Stato, dei quali finisce per restare prigioniera. Ma di quale laicità si tratta? La complessa esperienza giuridica dei singoli Paesi europei ha fino ad oggi partorito numerose “idee” di laicità, espressione di percorsi culturali tipici e differenti. La laicità italiana (come valore di principio, contenuto normativo, dato culturale, dinamica sociale, elemento politico…) è diversa da quella francese, che è diversa da quella finlandese, che è diversa da quella tedesca, da quella olandese, da quella di alcuni paesi dell’ex Europa dell’est. Sicché, i giudici di Strasburgo avrebbero dovuto considerare la specificità italiana con maggior equilibrio e attenzione al peculiare contenuto della sua laicità. Del resto, osservando in parallelo ciò che ebbe a deliberare negli anni ottanta del secolo scorso l’Osce (quando era ancora Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa – Csce), le questioni che riguardano le istituzioni religiose e la loro natura giuridica devono essere trattate all’interno degli assetti costituzionali dei singoli Paesi e non in seno alle istituzioni europee, prospettiva accolta anche dall’art. 51 della Costituzione europea.
Inoltre, non sempre la laicità si esaurisce con il “dovere di neutralità e imparzialità”, ma certamente deve “garantire il pluralismo”, come afferma la sentenza, che, tuttavia, sembra in palese contrasto con il principio affermato. Infatti, il principio di laicità dello Stato, e cioè di non discriminazione tra i cittadini e fra le varie religioni, è alla base della democrazia e dello stato di diritto e deve comportare il riconoscimento del diritto di tutti i cittadini alla tutela della propria fede religiosa e filosofica. Quindi, la conseguenza logica è che si garantisce il diritto assicurando a tutti l’eguale esercizio e non proibendo ad alcuni l’esercizio del diritto. In altre parole, in un quadro di pluralismo, la libertà religiosa comporta il diritto per tutti coloro che lo chiedono di esporre i propri simboli e non il diritto di alcuni di rimuovere i simboli. La laicità, come ha affermato monsignor Vincenzo Paglia per la conferenza episcopale italiana, “non è fare tabula rasa di tutti i simboli religiosi”. Pertanto, sarebbe più opportuno fare una legge che disciplini l’affissione di tutti i simboli religiosi nelle scuole pubbliche, rispettando l’autonomia dei singoli istituti e la volontà degli studenti (e delle loro famiglie), specie perché la società contemporanea non può fare a meno del significato e del valore dei simboli, segni evocativi di riconoscimento e di appartenenza. In questa direzione i cattolici non si battono solo per il crocifisso, ma per affermare la libertà di religione.
L’impegno per la difesa dei diritti di libertà, comunque, deve percorrere strade di lealtà da parte di tutti, senza nascondersi dietro il paravento di argomentazioni tanto formali quanto inutili. Ciò vuol dire che chi non crede non può farsi guidare da vecchi ricordi traumatici derivati dal suo modo di vivere in passato il cristianesimo o da rancori sedimentati di anticlericalismo. Così come chi crede (a qualunque fede appartenga) non può assumere comportamenti discriminatori o arroganti, pretendendo che altri diano ai propri simboli un valore forzatamente condiviso.
Ma vi è un ulteriore giudizio collegato con la sentenza, meno praticato e pubblicizzato, ma, forse, più profondo, che è tutto di natura spirituale e interroga in modo diverso i cattolici. Già in epoca apostolica san Paolo evocava il valore della croce (tema ricorrente nelle varie lettere a Galati, Efesini, Corinti, Filippesi…), che generava scandalo, disprezzo ed era considerata follia (1 Corinti, 1, 23, ss): la croce tocca direttamente e ineluttabilmente l’orgoglio dell’uomo. Tuttavia, la croce rivela anche la sconfinata tenerezza di Dio per gli uomini, ai quali si rivela capovolgendo la logica del potere come espressione di forza e scegliendo ciò che è debole per confondere i “saggi” e per manifestare la forza della Sua misericordiosa proposta di salvezza e di libertà. Attraverso la sofferenza della croce, liberamente scelta, con gesto gratuito e senza interferire nell’ingiustizia perpetrata scientemente dal potere politico, Cristo compie un evento unico e irripetibile a beneficio di tutti gli uomini. Quindi, nessuna meraviglia che vi siano oppositori al crocifisso e avversari della croce e di ciò che essa può rappresentare nella sua immediatezza, cioè debolezza e sangue. Tuttavia, in questo avvenimento si deve leggere un vigoroso richiamo divino e un deciso invito a fondare la nostra azione sulla potenza di Dio e non sulla sapienza umana per comporre le “inimicizie” e riconciliare tutte le cose in Cristo. Per questo, se pastoralmente serve, si può anche rimuovere, ben sapendo che la storia ha già giudicato: la rimozione sarà solo temporanea e locale. La croce, infatti, è sopravvissuta agli imperi, ai regni, ai totalitarismi e al pensiero dei “sapienti”.

Gaetano Dammacco

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