8 novembre 2009 – Cristo Re
a cura di Don Raffaello Ciccone
Lettura dal profeta Isaia 49, 1-7Nel libro di Isaia ritorniamo al secondo dei quattro canti del Servo di Jhwh, scritto da un profeta anonimo (detto Secondo Isaia) che ha raccolto i suoi testi di speranza nell'opera del profeta Isaia, vissuto secoli prima.
L'annuncio è fatto alle "isole" dove vivono i popoli remoti della terra, tuttavia mentre spesso "le isole"
sono chiamate per il giudizio di Dio, in questo caso, alla luce del v. 6, insieme ad Israele, esse sono le
destinatarie della promessa salvifica proclamata da Dio per mezzo del profeta.
L’anonimo servo parla in prima persona e vuole giustificare la propria missione. La vocazione che Dio gli
ha dato consiste nell’unificare la comunità di Israele; ed egli lo farà attraverso la sua voce (spada affilata, freccia appuntita), espressa con immagini forti che ricordano il cuore degli ascoltatori, penetrato dalla parola.
Il profeta tuttavia riconosce il proprio fallimento. Egli è servo, a somiglianza di Mosé ed Elia e a
somiglianza di Geremia che hanno operato, lottato e spesso si sono trovati soli Dio lo ha chiamato, e il compito non si è sviluppato come frutto di una potenza propria, ma come azione divina che plasma, che crea, che trasforma: "Il Signore mi ha plasmato" (v.5).
Così il servo di Jhwh, come tanti profeti, ha lottato con fedeltà, "onorato dal Signore" (v.5). Se non c’è
stata una conclusione pienamente positiva, non solo gli viene rinnovato l’incarico, poiché il Signore stima
il suo servo, ma gli offre una nuova e più grande missione e, questa volta, universale. Con il suo servo Dio
comincia una nuova era, perché in tutto il mondo ci siano la sua luce e la sua salvezza.
Nel v. 7 si ripensa alla missione universale di Israele nella luce del "servo sofferente" (Isaia 53). Mentre la
sofferenza è illuminata dalla parola del Signore, la speranza sorregge il popolo che poggia la propria
fiducia solo nel disegno di colui che lo ha chiamato.Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi 2, 5-11
Nella lettera ai Filippesi, Paolo, in carcere ad Efeso, sviluppa con commozione un'accorata
raccomandazione per questa sua comunità tanto cara, perché superi ogni sentimento di rivalità e vanagloria
e la concordia riesca a sostenerla e a farle superare le tentazioni del male.
Ci sono, probabilmente, orgoglio ed egoismo e questi atteggiamenti portano alla dissoluzione.
Sono invece necessarie disponibilità positive che formano unità: "Se dunque c’è qualche consolazione in
Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono
sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa
carità, rimanendo unanimi e concordi. " (2,1-2). Si potrebbe tradurre anche così: "Se è vero che Cristo vi
chiama ad agire, se l'amore vi dà qualche conforto, se lo Spirito Santo vi unisce, se è vero che tra voi c'è
affetto e comprensione... rendete completa la mia gioia".
Vengono quindi richiamati alcuni atteggiamenti fondamentali per una unità nella comunità: "Non fate nulla
per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso.
Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri" (2,3-4).
Questi atteggiamenti nuovi, che costituiscono un cammino comune, sono dettati dagli stessi sentimenti di
Gesù che bisogna imitare.
A questo punto inizia il brano che abbiamo letto e che quindi si spiega meglio poiché non è una
formulazione teologica astratta ma un richiamo concreto, fondamentale a Gesù perché: "Abbiate in voi gli
stessi sentimenti di Cristo Gesù".
Probabilmente ci sono alcune smagliature nell'intesa tra i cristiani nella comunità.
La mancanza di amore si manifesta come spirito di parte e come affermazione di sé, a danno degli altri. Ne
viene una lacerazione dell'unità (vv 3-5). Paolo fa appello all'umiltà che, nel mondo greco, era disprezzata
perché sinonimo di servilismo, abiezione, incapacità, adulazione (il nostro: "strisciare ai piedi di uno").
Nel cristiano l'umiltà non ricorda il "cane bastonato", ma un cuore aperto alla comprensione e alla
generosità verso l'altro.
L'esempio grande di umiltà è quello di Gesù, sviluppato nell'Inno dei vv.2,6-11: la discesa nell'abiezione, il
baratro della spogliazione per amore e la risalita nella gloria di Dio.
Pur essendo in una realtà "invidiabile", il Figlio ha rinunciato ai privilegi ed ha accettato la povertà del
niente. "Per questo Dio lo ha esaltato" e tutto il mondo è soggetto a questa signoria di amore
e di dedizione in una intesa essenziale tra Cristo e il Padre.Lettura del Vangelo secondo Luca 23, 36-43
Il Vangelo di Luca racconta l'ultimo atto di Gesù prima della sua morte che travolge, nel rifiuto e negli
insulti, ogni credibilità e ogni dignità. In un’impossibile relazione tra salvezza e regalità di Cristo, vengono
ricordati gli scherni dei capi: "ha salvato gli altri', con riferimento al processo giudaico (v. 35), gli scherni
del soldati: "Se tu sei il re dei giudei" con riferimento al processo romano (v. 36), gli scherni del ladrone
che pretende la connivenza: "Salva te stesso e noi" (39).
Lontano, poi, c'è la folla che osserva e non insulta, ma che poi lascerà il Golgota, battendosi il petto (v.48);
vicino, il "buon ladrone" si fida di questo re sconfitto.
Chi entra in rapporto con Gesù è il buon ladrone che riconosce la propria colpevolezza di fronte alla santità
di Gesù e al dolore innocente. Qui sorge la preghiera di conversione come quella del pubblicano e quella
del "figliol prodigo": "Gesù, ricordati di me".
Le parole di Gesù s'innestano all'interno di un tessuto di rifiuto, di scoraggiamento, di disperazione. Egli
perdona quelli che lo stanno uccidendo con le parole più sconcertanti che si potessero pensare sulle labbra
di un condannato, ingiustamente, a morte:"Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno"(v.34).
Egli, infatti, si rende conto che chi lo ha condannato non poteva assolutamente immaginare di compiere un
atto malvagio, date le aspettative, le mentalità, le ideologie, il messianismo che aveva sempre pensato e
immaginato. Gesù perdona dicendo che non può assolutamente capire. E, in questo modo, mentre muore,
lo scusa.
E però, mentre muore, sa che sta salvando il mondo attraverso l'accoglienza del buon ladrone (v.43).
Il problema fondamentale che interroga e che lascia perplessi è "la salvezza": Colui che muore, che si fa
uccidere, è disarmato e non può salvare perché non "salva neppure se stesso".
E' stata la tentazione di sempre. Dall'inizio: "Fa che queste pietre diventino pane" (4,3). A Nazareth:
"Medico, cura te stesso" (4,23). Lo hanno provocato perché facesse segni, perché conquistasse il potere,
perché stupisse e abbagliasse con i suoi miracoli. Egli invece vuole fare la volontà del Padre che gli chiede
di operare nella povertà, nella libertà, nell'amore, nella misericordia. Questi criteri sono assolutamente
lontani da quanto ci si aspettava e ci si aspetta da un re e da un potere.
Perciò Gesù è ucciso. Egli non serve perché illude, non serve perché è pericoloso.
Ma egli porta "oggi " la salvezza, se ci si rivolge a Lui con fiducia. Il buon ladrone, infatti, lo chiama Gesù
senza alcun titolo e mostra un rapporto essenziale di dialogo e confidenza.
In S. Luca il buon ladrone è allora la figura che sintetizza tutti i poveri, i peccatori, i lebbrosi, i malati, gli
esclusi che sono cercati da Gesù nel Vangelo. E Gesù è il medico, il samaritano, il pastore, il giusto, il
povero.
Cosi la regalità riconosciuta di Davide diventa la regalità esaltata da Dio in Cristo Signore, passando
attraverso la regalità torturata, derisa, della croce.
Ovviamente questi testi ci fanno ripensare alla gestione che noi facciamo del nostro potere.
Essendo adulti, con responsabilità di lavoro, poco o tanto, abbiamo potere. E’ importante verificare come
Gesù utilizza il suo potere per il "bene comune".
In conclusione:
- Gesù è chiamato ad essere luce delle nazioni (1 lettura).
- Essere luce per tutti è possibile solo se ci si gioca sull’amore (2 lettura).
- Il vero credente, sul Calvario, è il buon ladrone che si fida di Gesù (Vangelo).Da Caritas in veritate n. 24c (Benedetto XVI 29 giugno 2009) Lettera enciclica sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità. "Oggi, facendo anche tesoro della lezione che ci viene dalla crisi economica in atto che vede i pubblici poteri dello Stato impegnati direttamente a correggere
errori e disfunzioni, sembra più realistica una rinnovata valutazione del loro ruolo e del loro potere, che vanno saggiamente riconsiderati e rivalutati in
modo che siano in grado, anche attraverso nuove modalità di esercizio, di far fronte alle sfide del mondo odierno. Con un meglio calibrato ruolo dei
pubblici poteri, è prevedibile che si rafforzino quelle nuove forme di partecipazione alla politica nazionale e internazionale che si realizzano attraverso
l'azione delle Organizzazioni operanti nella società civile; in tale direzione è auspicabile che crescano un'attenzione e una partecipazione più sentite
alla res publica da parte dei cittadini".
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