30.10.2009di Giuseppe GRAMPA
Parroco di S. Giovanni in Laterano, MilanoLa Pagina evangelica risulta chiaramente costruita attorno al simbolo del convito. Il simbolo del banchetto è immediatamente eloquente, è simbolo universale. Prendere parte ad un banchetto vuol dire ben più che semplice nutrimento, è gesto carico di significati: convivialità, amicizia, festa, comunione tra le persone. Non stupisce allora che in tutte le tradizioni religiose il pasto comune sia usato come simbolo espressivo della comunione degli uomini con Dio, simbolo del nostro destino. Per questo, il gesto centrale della fede cristiana - la celebrazione eucaristica che stiamo compiendo proprio ora - è un convito, un pasto rituale espressivo della convivialità umana e della comunione con Dio. La parabola odierna adopera questo simbolo per indicare l’intenzione di Dio di convocare tutta l’umanità ad una festa eterna. Tutta l’umanità. Certo, i primi destinatari non hanno accolto l’invito, con motivazioni diverse si sono sottratti all’invito. Sostiamo su questo dettaglio del testo. Di invito si tratta, cioè di una proposta alla nostra libertà. Di fronte a Dio e alle sue proposte siamo liberi. Viene alla mente la brevissima parabola di Apocalisse 3,20: “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”. Anche in questo breve testo come nella nostra parabola anzitutto vi è l’iniziativa libera, spontanea di Dio che invita, che si avvicina alla nostra porta e bussa. Davvero In principio Dio!
Una scelta libera
E’ sempre lui che fa il primo passo e viene a cercare, interpella, invita. E di fronte a Dio non sta un essere inerte, passivo, un robot o un burattino: di fronte a Dio sta una coscienza libera e capace di scelta, di accoglienza e di rifiuto. La porta può rimanere chiusa, l’invito può esser rifiutato. Ma i doni di Dio sono senza pentimento e quindi altri vengono invitati, anzi tutta l’umanità con un gesto di sconfinata larghezza. Buoni a cattivi, belli e brutti, anche l’ultimo e malconcio rottame umano abbandonato lungo una siepe campestre è raggiunto dall’invito: Vieni anche tu alla festa. Questo è l’Evangelo, la gioia dell’Evangelo. I discepoli di Gesù hanno consapevolezza di dover essere anzitutto banditori di questo lieto annuncio: Dio viene e ci chiama, vuole sottrarci all’isolamento per convocarci nel suo popolo nel convito del suo Regno. Prima di qualsiasi precetto morale, prima dei comandi e dei divieti, prima di ogni altra parola deve risuonare l’invito alla gioia dell’Evangelo. Perché la sala sia stracolma e sia festa per tutti. Fermiamoci anche noi sulla soglia di questa sala affollata da una umanità che nonostante le fatiche e le brutture che ne sfigurano il volto è ormai chiamata alla gioia della comunione con Dio, con una sottolineatura particolarmente preziosa in questi nostri tempi di “globalizzazione”.
Non tocca a noi escludere
Le prime due letture, infatti, fanno degli stranieri, di quanti non appartengono al popolo della prima Alleanza, i destinatari di questo invito rilanciato a tutta l’umanità, invito sconfinato. Il muro di separazione che proprio nel Tempio di Gerusalemme quasi chiudeva gli stranieri in una sorta di “riserva” separandoli dai figli di Abramo, è ormai abbattuto, tutti, proprio tutti sono chiamati al banchetto. In questi nostri anni quanti uomini, donne e bambini, cercano in tutti i modi di sfuggire alla miseria per avere almeno le briciole del banchetto al quale noi quotidianamente prendiamo parte. E noi istintivamente li temiamo, come pericolosi per la nostra sicurezza e il nostro benessere. Eppure secondo la parola evangelica sono anche loro invitati. Davvero la storia dell’umanità si svolge tra questo appello di Dio, invito alla festa rivolto a tutti senza esclusioni di sorta, e la libertà dell’uomo capace di accogliere o di rifiutare. Ma non tocca a noi escludere qualcuno dall’invito.